Autunno-inverno ’44/’45: da Magreta viveri e calzettoni

[da Una famiglia eccezionale: la mia, dattiloscritto di Maria Giuliana Gorrieri]

Il fronte si era fermato sulla linea Gotica. Tra i nostri problemi immediati c’era quindi il reperimento di viveri da mandare in montagna, e di vestiario pesante.

Ci fu un coltivatore di via Berlete che offrì un maiale, ci fu la requisizione di forme di formaggio a Tabina, ma queste non erano che gocce nel mare della fame di quei ragazzi di vent’anni… E poi c’era il problema delle sigarette. Un buon rifornimento venne da una requisizione fatta nottetempo da partigiani magretesi con a capo Emilio (nome di battaglia Jimmy) al deposito di Sassuolo.

Il custode, unico testimone, interrogato il giorno dopo riferì che autori del furto erano alcuni loschi individui, che si erano portati dietro, certo con la forza, un giovane biondo dall’aria innocente….Emilio.

Poi ricordo i calzettoni che la Maddalena, la nostra contadina, ci faceva sferruzzare sotto la sua direzione con una lana grezza e dura asportata dai materassi. Indossati dovevano essere uno strumento di tortura!

In compenso dalla montagna ricevevamo pacchi di abiti dei miei fratelli da lavare: si installava nel cortile un calderone dove bollivano, con gli indumenti, i pidocchi che li abitavano; ai fili era steso un tipo di vestiario che certo non poteva appartenere al babbo, come giubbotti e calzoni militari, paracadutati dagli alleati. Per fortuna la nostra casa è un po’ discosta dalla provinciale che va al fiume e sulla quale transitavano truppe tedesche.

….

Noi non potevamo non odiare quel protervo, crudele nemico che aveva occupato la nostra Italia, tuttavia tra i tedeschi dovevano esserci anche dei “poveri Cristi” che la guerra non l’avevano voluta. Per esempio, ne ricordo uno che, entrato nel nostro cortile nel corso di un rastrellamento, si fermò attento davanti ad una conigliera e informò mio padre, a gesti, che i conigli avevano la scabbia. Forse anche lui era più portato all’allevamento che alla guerra!

Guado del Secchia – gennaio 1945

[E. Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino, il Mulino, 1966]

È passata da tempo la mezzanotte quando scendiamo sulla via delle Radici, ai Muraglioni di Roteglia.

Siamo sfiniti per la lunga marcia nella neve.

Ora abbiamo davanti il problema più difficile: il passaggio del Secchia per portarci sulla sponda Modenese, fra Prignano e Sassuolo. Ma non immaginiamo quanto sarà difficile e drammatico il guado del fiume.

Su un carro trainato da un paio di buoi che abbiamo prelevato in una stalla prendono posto alcuni di noi con le armi e gli zaini. Ma appena messo piede in acqua, le due bestie si rifiutano di procedere nonostante le bastonate.

Allora Viero1 scende in acqua davanti ai buoi, riesce alla meglio a tirarseli dietro. Intanto noi facciamo catena con le braccia e ci inoltriamo nell’acqua gelida e impetuosa; in mezzo al fiume siamo sommersi fino al petto. Ad ogni passo sembra che la catena si spezzi e qualcuno venga trascinato via dalla corrente. Le mani sono gelate e riescono a malapena a mantenere la presa. I piedi non li sentiamo più.

Come Dio vuole arriviamo sulla riva opposta. Qualcuno sfinito si butta sulla neve: non se la sente più di muoversi; ma Walter2 a schiaffi e calci li costringe a mettersi in cammino. La salita è faticosissima: due passi avanti e uno indietro, nella neve altissima.

Finalmente arriviamo a un gruppo di case: svegliamo gli abitanti, che si commuovono a vederci in quello stato. Subito accendono il fuoco nei grandi camini e noi possiamo toglierci gli abiti bagnati e rigidi e quei pezzi di ghiaccio che sono le nostre scarpe. Nudi, ci scaldiamo davanti alla fiamma. Sembra di tornare alla vita dopo un incubo spaventoso.

Anche questa è passata.

1 Viero, Oliviero Bertolani; 2 Walter Gorrieri.

Lo sganciamento dopo la battaglia di Montefiorino

Martedì 1° agosto 1944

Alla sera ci siamo ritirati alla Croce di Costrignano e lì arrivava tanta di quella gente, tanti di quei partigiani, era un lavoro terribile.

Noi eravamo partiti la domenica con niente, ci avevano detto “c’è un attacco”, pensavamo si trattasse di respingerlo in breve tempo, tutta la nostra roba l’abbiamo lasciata a Rubbiano, c’erano alcuni in braga corta.

C’erano, non so come, dei vestiti: Luigione ha preso un vestito da carabiniere, di quelli con la coda, Baciccia un sacco con scritto Calciocianamide.

Abbiamo camminato quasi tutta la notte dietro a tutta quella gente. I ragazzi quando si fermavano si addormentavano e, per proseguire il viaggio, bisognava tirarli su uno a uno.

Mercoledì 2 agosto, quando siamo arrivati a Polinago tutta la gran fila dei partigiani si è avviata per Brandola e per Frassineti per passare la Giardini nei pressi di Montecenere. Noi ci siamo staccati dal grosso, convinti che in una occasione del genere la massa fosse una debolezza più che una forza e ci siamo recati alla villa dei Fiocchi. Lì siamo stati fermi tutto il giorno a fare il bagno, a mangiare e a bere. Mi ricordo che il povero Coccarda e Tonino cantavano il Rigoletto, uno faceva da soprano e l’altro il tenore.

Di notte poi, guidati da Gino Giovanardi, abbiamo passato la Giardini a nord di Pavullo nei pressi del bivio di Sant’Antonio e ci siamo diretti nella zona di Castagneto, poi a Verica.

Adriano Gollini racconta un episodio capitato in quei giorni:

“C’eravamo sistemati su un monticello dove c’era un gruppetto di case, non so come si chiamasse quella località. Io e Luigi detto il Frate andammo giù a un mulino vicino alla strada a prendere della farina. Quella brava gente ci diede col cuore non solo la farina ma anche dei vestiti.

Usciti dal mulino, ci incamminammo su per la strada principale per rientrare alla base. Fatti alcuni passi, arrivò un cavallo che trainava un carretto: c’erano sopra due tedeschi, noi eravamo armati, ci guardarono, noi guardammo loro, loro proseguirono la loro strada , fecero ouf, ouf al cavallo e se ne andarono.

E noi altrettanto.

Arrivati sul sentierino, dove c’era la stradicciola che portava alla località dove eravamo sistemati, c’erano già i nostri tutti di guardia e ci dissero: “non avete visto? Abbiamo la strada tutt’intorno e ci sono i tedeschi che passano”.

Arrivammo lassù con gran paura e ci mettemmo tutti in postazione tutt’intorno e quando fu notte cambiammo posto.

Alessandro Coppi

Alessandro Coppi, nato il 9 luglio 1894, aveva allora 49 anni; combattente della prima guerra mondiale, nel 1920 aveva assunto la segreteria provinciale del neonato Partito Popolare ed era rimasto al suo posto fino agli inizi del 1926, quando il partito aveva cessato di esistere.

Da allora si era chiuso nell’attività professionale e aveva sempre rifiutato di iscriversi al Partito nazionale fascista. Venne tenuto sotto stretta sorveglianza dagli organi di polizia per tutto il ventennio.

Dotato di modestissimi beni, Coppi, nel 1943, aveva sette figli, che trovavano nel suo lavoro praticamente l’unica fonte di sostegno: questo dà la misura del coraggio e dello spirito di sacrificio di un uomo, la cui partecipazione alla Resistenza in una posizione di primo piano non comportava solo rischi personali, ma poteva compromettere anche la vita di una famiglia così numerosa.

Coppi rappresentava un punto di riferimento per quanti avevano militato nel PPI e fin dal 25 luglio ’43 aveva cercato contatti con i vari esponenti dell’antifascismo modenese fino a quando, nel novembre ’43 si arrivò alla costituzione del CLN provinciale, di cui Coppi col nome di battaglia di Tommaso divenne presidente fino al 1946.

Tutt’altro che facile fu anche la creazione di un’organizzazione democristiana durante la Resistenza: essa nacque dall’incontro, mediatore don Elio Monari, fra gli ex popolari di Coppi e il gruppo dei giovani facenti capo a Claudio, provenienti da associazioni cattoliche, ma del tutto digiuni di politica.

“Ci valorizzò con la sua esperienza, ritessendo i legami tra le due generazioni”. Così l’ha ricordato Ermanno Gorrieri.

Fu arrestato nel marzo 1945 e rimase in carcere fino alla Liberazione.

Eletto all’assemblea costituente, fu deputato dal 1948 al 1953.

Morì il 30 agosto 1956.

19 ottobre 1944: tribunale in montagna

[di Ermanno Gorrieri, articolo pubblicato il 25 aprile 1981 su Il Giorno]

Questo maledetto ottobre non finisce mai. È dai primi di settembre che gli americani hanno sfondato la linea gotica in direzione di Bologna. Molti avevano scommesso che la liberazione era questione di due o tre settimane. Invece l’avanzata va a rilento.

Piove quasi ogni giorno, i primi freddi si fanno sentire. Il comando regionale continua a insistere: vuole che alcune brigate si avvicinino alla pianura per arrivare a Bologna e a Modena prima degli alleati. È una parola: il fronte corre sul crinale tosco-emiliano; l’Appennino modenese è retrovia immediata e pullula di tedeschi. I partigiani si sono ridotti nelle borgate più sperdute e anche lì non si può mai essere sicuri.

Alla Brigata Claudio si presenta una pattuglia: sono stati catturati due tedeschi, li hanno portati al Comando di Divisione e il commissario politico vuole che un reparto li custodisca per qualche giorno in attesa di ordini. “Bravo, perché non se li tiene lui? Sa benissimo che i prigionieri sono una rogna.”

I partigiani di Claudio protestano; tra loro, che sono democristiani, e il commissario, comunista, non corre buon sangue; si combatte insieme, ma spesso i contrasti sono vivaci.

Alla fine, dopo la solita litigata, i prigionieri restano lì.

Passano i giorni, sulle cime nevica, il freddo e l’umidità penetrano nelle ossa. Ormai le speranze si affievoliscono. Molti reparti cominciano a pensare di tentare di attraversare il fronte per rifugiarsi in Toscana. Ai tedeschi non sono mai stati augurati tanti accidenti come adesso.

Una sera uno dei prigionieri chiede di parlare col comandante. Io sono belga, dice; sono stato arruolato per forza. Quell’altro è un hitleriano fanatico; mi ha proposto di approfittare del primo momento di disattenzione dei vostri per prendere due mitra e fuggire insieme.

La reazione di alcuni è rabbiosa: facciamoli fuori subito. Altri obiettano: abbiamo criticato i comunisti per certi metodi troppo spicci; ci vuole un processo. Si elegge un tribunale che si riunisce nella stalla. Claudio presiede e a fatica tiene a bada i colpevolisti che chiedono di tagliar corto con le formalità. Si procede agli interrogatori: usando a fatica tedesco, francese, italiano e con l’aiuto dei gesti, ci si arrangia. Il belga conferma l’accusa, il tedesco prima nega poi si mette a piangere, ammette il suo progetto ma dice che fuggire è un diritto di ogni prigioniero.

A questa tesi si attacca Giovanni1 che funge da difensore; ma l’accusa ha buon gioco nel sostenere che il tedesco voleva portar via delle armi e che ha istigato l’altro a fare altrettanto.

La discussione si prolunga. Il motivo è semplice: le decisioni possibili sono solo due, o l’assoluzione o la morte; non esistono condanne intermedie. Gli animi si accendono. Dice Millo2, l’accusatore: avete già dimenticato Gino, Balilla e Paolo3 che sono morti due settimane fa combattendo contro questi maledetti crucchi? E i sei della nostra organizzazione di pianura impiccati col filo di ferro il 30 settembre a San Giacomo Roncole proprio davanti alla canonica, in odio a don Zeno4?

Millo ha tutte le ragioni dalla sua: non è questione solo di vendicare i nostri morti; questa è una guerra senza pietà; sapete bene che questi porci, se prendono uno di noi, non solo lo ammazzano, ma prima lo torturano. E allora, occhio per occhio, dente per dente. Il povero Giovanni si batte con accanimento in difesa del tedesco; ma i suoi argomenti sono deboli: non possono andare al di là del “non fare anche noi come fanno loro”.

Dopo mezzanotte, fuori tutti; i giudici debbono decidere. Non si vorrebbe arrivarci, ma alla fine prevale l’esigenza della sicurezza delle formazioni partigiane. Prigioni non ce n’è, si è costretti a frequenti spostamenti. E, presto o tardi, questo scappa e magari fornisce notizie utili per i rastrellamenti. La decisione è unanime: colpevole.

La mattina dopo c’è chi chiede di far parte del plotone di esecuzione e chi invece dice che lui di tedeschi ne ha ammazzati molti in combattimento e non gli ha fatto né caldo né freddo, ma di uccidere uno disarmato non se la sente.

Ad un certo punto nasce un problema: vogliamo ammazzarlo come un cane, senza chiamare il prete? Parte una pattuglia per la parrocchia più vicina. Intanto sulle aie della borgata i partigiani hanno messo abiti e scarpe ad asciugare e si godono il tiepido sole. Già, perché stamattina, dopo tanti giorni di freddo e di pioggia, è spuntata una giornata meravigliosa.

Arriva il prete, un vecchio amico dei partigiani. Parla a lungo con il tedesco, ma soprattutto cerca di convincere i partigiani a non ucciderlo. Sarà la forza delle sue argomentazioni o sarà che gli animi sono ben disposti: si può ammazzare un povero Cristo in una giornata come questa, con questo sole così dolce? L’esecuzione è rinviata. Com’era inevitabile, un mese dopo il tedesco riuscirà a scappare.

Quando ne riparlano oggi, i partigiani sono contenti che sia andata così.

1 Giovanni Manfredi; 2 Millo Olivieri; 3 Gino Giovanardi, Giorgio Campagna (Balilla), Paolo Sangiorgio caduti in combattimento contro i tedeschi il 6 ottobre ’44 al Ponte di Samone; 4 don Zeno Saltini

Cattura di Walter Gorrieri – febbraio-marzo ’45

1° ricordo – tratto da Una famiglia eccezionale: la mia, dattiloscritto di Maria Giuliana Gorrieri

Walter (nome di battaglia Manata) fu catturato in una retata mentre era in missione presso un’altra formazione.

Sentite quanto il destino (per i non credenti) giochi nelle vicende umane: fino a pochi istanti prima della cattura, Walter portava il cappello da alpino di Ermanno; se lo tolse per darlo a un partigiano che volle provarlo.

I tedeschi scambiarono quest’ultimo per il comandante Claudio, che sapevano essere alpino, e gli spararono alla testa. Il proiettile trapassò la cupola del cappello, lasciando indenne il malcapitato che ebbe solo “una paura della Madonna”.

Walter dopo la cattura fu portato a Pavullo, poi a Reggio. La mamma e la fidanzata Maria Pia andarono alle carceri per quello che poteva essere l’ultimo addio.

Non venne processato come partigiano, ma come renitente alla leva e condannato alla deportazione in Germania. C’è un episodio, ricordato dal figlio Francesco, su questa vicenda: pare che un tedesco, che era stato preso in montagna dai partigiani e poi lasciato libero, avesse riconosciuto Walter e gli avesse bisbigliato: “Io niente sapere”.

Comunque Walter fu fatto salire con altri su un treno che fece sosta a Trento, dove la stazione fu mitragliata da aerei inglesi. Nel caos che ne seguì Walter riuscì a fuggire portandosi dietro un altro ragazzo. Meta della fuga: casa!

Camminavano di notte, fermandosi di giorno in qualche fienile o capanno che potesse fornire un nascondiglio. Trovarono contadini che li sfamarono e li indirizzarono. L’attraversamento del Po rappresentava un problema ma anche qui ci fu un barcaiolo che li traghettò.

Insomma, come si dice: quando non è la tua ora…e Walter tornò a casa e di qui di nuovo in montagna.

2° ricordo – tratto da Il cane da pastore tedesco, n.46/47 del 1982, in Ricordo di Walter Gorrieri di Silvio Tondelli e Francesco Gorrieri

Nel corso di un rastrellamento fu catturato dai nazisti ed imprigionato nel carcere fascista di Reggio Emilia. Tentò più volte la fuga, ma il tradimento di un compagno lo fece scoprire e fu sottoposto a torture.

Fu quindi inviato con un convoglio di deportazione verso i campi di concentramento in Germania; con l’occasione di un mitragliamento aereo, riuscì a fuggire nei pressi di Trento, e camminando notte tempo, riuscì, fra mille peripezie, a tornare a Modena dove, riunitosi alle brigate partigiane, continuò la lotta sino al giorno felice della liberazione.

Per il suo coraggioso comportamento gli fu conferita la medaglia d’argento al valor militare.

Due azioni partigiane alla Manifattura Tabacchi

Il 10 ottobre 1944 il colpo delle sigarette alla Manifattura di Sassuolo. Il colpo fu fatto quando si seppe che i tedeschi erano di presidio di giorno, ma alla notte non si fermavano.

Qualche sera prima nella casa di Erio Monari, alle Casiglie, fu fatta una riunione per predisporre il piano d’azione coordinato da Ercole (Alfonso Bucciarelli), responsabile della zona pedemontana. Parteciparono al colpo una dozzina di partigiani di Magreta e Sassuolo.

Andarono avanti Mantovani e Giusti in divisa della San Marco, dalla quale avevano disertato, si fecero aprire la porta dal custode e tennero a bada la famiglia.

Con un biroccio furono asportati circa 7-8 quintali di sigarette e il tabacco che non si riuscì a portare via fu danneggiato. Le sigarette furono depositate in parte a casa di Monari, in parte da Cavani e due grosse casse nalla casa che è sul ponte della Fossa.

Purtroppo solo una parte del bottino rimase a chi aveva fatto il colpo: due comunisti, che erano a rubare l’uva durante la notte nei pressi della Fossa, videro il movimento e il giorno dopo si fecero consegnare le due casse.

Rastrellamento a Magreta

[dal Quaderno di Vitt, diario di Vittoria Bucciarelli]

Domenica 15 ottobre 1944

Era le 6 del mattino quando mia madre, partita per la Messa, ritornò indietro dicendo che avevano iniziato un rastrellamento. Ci alzammo tutti da letto di volata. I tre ragazzi pensavano subito dove potevano nascondersi. Ma non si fece in tempo a pensare tanto, perché ci accorgemmo che al Colombarone c’erano già un mucchio di tedeschi.

In un attimo presero una decisione. Renzo andò nei campi che portavano verso il Secchia, ma non fece in tempo ad attraversare il fiume e gli toccò di nascondersi in una casa di contadini. Tonino fece una volata dai Busani che avevano un buon rifugio. Mentre Ulderico si nascose nel rifugio di casa nostra.

Nelle 11 finì il rastrellamento e radunarono tutte le persone che presero in centro a Magreta.

Per il pensiero dei miei fratelli fu un’ora di agonia, ma poi li sapemmo tutti salvi.

Andai con la Nivarda a vedere la partenza di quelli che avevano preso, siccome si seppe che li avrebbero portati tutti a Sassuolo. Fu una cosa orrenda, che non credo ci sia modo di spiegarla. Vedere tutta questa gente fu un colpo tale al cuore e ai nervi stessi, che si sentì in quel momento lo spirito di ribellione, di odio immenso che si aveva verso quei maledetti tedeschi. Se avessi lì, a portata di mano, qualche arma, forse mi sarei fatta ammazzare, ma avrei voluto vendicarmi. Non si poteva fare niente, all’infuori di piangere come feci io. Si vide bimbi, vecchi, le donne che si disperavano: sembrava un finimondo.

Il tradimento di Walter Tassi: antefatto ed effetti sulla Bassa

[da Ricordi, raccolti da Ermanno Gorrieri nel ’64-’65; da Nomadelfia è una proposta, anno XVII, n.7, ottobre 1984]

Walter Tassi era stato incaricato del compito di staffetta, infatti guidò il gruppo della Bassa nella spedizione del 4 luglio in montagna. Aveva quindi avuto conoscenza e contatto con gruppi nostri, con posti di tappa e, di ritorno dalla montagna, aveva anche recapitato della posta.

Alla fine di luglio o in agosto Tassi, ritornando in bicicletta da Concordia verso Mirandola, incidentalmente si ferì con la rivoltella che portava sempre con sé come facevano quasi tutti gli organizzati del movimento. Buttò via la rivoltella e fu ricoverato in ospedale; dopo una quindicina di giorni uscì.

Negrelli si insospettì per il fatto che non fosse stato interrogato o trattenuto dalla Brigata Nera e lo incaricò di andare in montagna portando una lettera diretta a Claudio in cui consigliava di trattenerlo su.

Tassi non andò in montagna, la lettera fu evidentemente aperta e per questo i fascisti decisero di operare subito la retata. Si suppone che Tassi, per salvarsi, già in precedenza avesse offerto la sua collaborazione ai fascisti.

Il 15 settembre la Brigata Nera di Mirandola operò una serie di arresti: andarono a San Giacomo a casa di Luigione che però era in montagna, poi andarono a Staggia ma non trovarono neppure Gianni Negrelli poiché sua cugina, che era la fidanzata di Tassi, era corsa ad avvertirlo.

Negrelli e alcuni altri si salvarono, ma non fecero in tempo ad avvisare tutti.

Danilo Bulgarelli, che era sceso dalla montagna alla metà di agosto, si trovava a Staggia e fu arrestato, portato a Mirandola, poi a Campiglio di Vignola e dopo varie peripezie in Germania dove rimase fino alla fine della guerra.

Furono arrestati anche Adriano Barbieri di Medolla che faceva parte della organizzazione di Negrelli, Nives Barbieri di Massa, che era un ragazzo giovanissimo da poco entrato in contatto con l’organizzazione e che era conosciuto da Tassi, Giuseppe Brandoli di S.Giacomo Roncole e Silvio Siena, diciottenne di Medolla.

Questi due ultimi furono tradotti a Modena, poi, la mattina del 17 settembre, furono portati sulla via Canaletto nei pressi di Bastiglia. Fu loro detto di scendere dal camion perchè erano liberi, ma mentre si allontanavano furono fucilati.

A Modena furono arrestati Spartaco (Enea Zanoli), Luciano Minelli e Viero Bertolani; a Casinalbo il maestro Martini e don Ivo Silingardi, inoltre don Tardini a Nonantola e don Beccari a Rubbiara.

12 marzo 1944: Pieve di Trebbio

[inedito di Ermanno Gorrieri]

La mattina del 12 marzo, dopo alcuni giorni di bel tempo, aveva ripreso a nevicare; un nevischio gelido cadeva anche a Pieve di Trebbio, una piccola frazione poco sopra Vignola, sulla destra del Panaro.

Era domenica e la popolazione, all’uscita della prima Messa ascoltata nell’antica pieve romanica, si trovò di fronte ad un fatto del tutto inaspettato in quel periodo: il paese era stato bloccato da una banda di ribelli, che impedivano alla gente di rientrare alle proprie case, per timore che i loro movimenti e la loro dislocazione potessero essere segnalati alle truppe fasciste dalle quali ci si aspettava un attacco.

Infatti l’attacco non si fece attendere. Una colonna di autocarri gremiti di militi della Guardia Nazionale Repubblicana, avvistata sulla strada proveniente da Guiglia, fu arrestata dal fuoco di una postazione partigiana nei pressi di casa Fontanazzi, all’inizio del paese.

Chi aprì il fuoco da questa postazione fu lo stesso comandante dei partigiani, il capitano degli alpini Leonida Patrignani, il quale ad un certo punto, in piedi, imbracciò il mitragliatore come se fosse stato un fucile, sparando raffiche disperate per permettere ai suoi di ritirarsi su una posizione più elevata e più adatta alla resistenza.

Il combattimento divampò per alcune ore intorno al paese, fra il terrore della popolazione asserragliata nelle case: i partigiani ebbero 8 morti; anche i militi fascisti, che appartenevano alla GNR di Bologna, subirono gravi perdite. Tra i caduti partigiani c’era anche Dino Lugli di 22 anni di Magreta, ma il suo corpo non fu subito riconosciuto e quindi il ragazzo fu creduto dai suoi parenti prigioniero in Germania fino alla fine della guerra.

Il comandante Patrignani, vista l’impossibilità di raggiungere l’Alto Appennino, ridiscese con i suoi uomini stremati e demoralizzati verso Marano e qui sciolse la formazione.

Falliva così un’iniziativa che, nelle intenzioni del Comitato di liberazione nazionale, avrebbe dovuto avere importanti conseguenze sui futuri sviluppi della lotta partigiana in montagna.

Infatti, in occasione della seconda chiamata alle armi da parte dell’esercito fascista prevista per l’8 marzo 1944, il CLN si rese conto che non bastava più la sola opera di propaganda per sollecitare i giovani a non presentarsi: occorreva offrire loro un’alternativa, tanto più che il bando prevedeva la pena di morte per i renitenti.

A questo scopo il CLN decise di organizzare la “spedizione Bandiera”, affidandone il comando ad uno dei membri del Comitato Militare, a Bandiera, cioè Leonida Patrignani del Partito d’Azione. La spedizione doveva risalire la valle del Panaro per raggiungere l’Alto Appennino e collegarsi con il piccolo nucleo partigiano di Armando e successivamente entrare in collegamento con le formazioni della valle del Secchia per dare un’impostazione unitaria alla lotta armata in montagna.

La sera dell’8 marzo l’ultimo trenino della SEFTA per Vignola era eccezionalmente affollato di giovani, che salirono specialmente nelle stazioncine di Vaciglio, Paganine, San Donnino: erano le reclute indirizzate dai tre partiti del CLN al punto d’incontro. Si trattava di una stalla nei pressi di Marano, dove Patrignani, con al fianco Davide e Claudio, in un’atmosfera tipicamente carbonara rivolse il suo discorso di benvenuto ai giovani richiamandosi agli ideali del primo Risorgimento.

Purtroppo l’afflusso di giovani era stato superiore al previsto e le armi, che venivano dal deposito comunista dei Mulini Nuovi e da quello democristiano di Magreta, non erano sufficienti: fu questo il motivo che costrinse la spedizione a rinviare la salita verso l’Appennino per attendere l’arrivo di altre armi. La permanenza nei dintorni di Marano e Guiglia di un gruppo così numeroso non poteva passare inosservato e provocò l’attacco fascista a Pieve di Trebbio, in una zona e in un momento critico, quando la formazione non era ancora adeguatamente armata e addestrata.

* Pur con un ordine diverso, gli stessi avvenimenti sono in La Repubblica di Montefiorino, il Mulino, 1966.