[di Ermanno Gorrieri, articolo pubblicato il 25 aprile 1981 su Il Giorno]
Questo maledetto ottobre non finisce mai. È dai primi di settembre che gli americani hanno sfondato la linea gotica in direzione di Bologna. Molti avevano scommesso che la liberazione era questione di due o tre settimane. Invece l’avanzata va a rilento.
Piove quasi ogni giorno, i primi freddi si fanno sentire. Il comando regionale continua a insistere: vuole che alcune brigate si avvicinino alla pianura per arrivare a Bologna e a Modena prima degli alleati. È una parola: il fronte corre sul crinale tosco-emiliano; l’Appennino modenese è retrovia immediata e pullula di tedeschi. I partigiani si sono ridotti nelle borgate più sperdute e anche lì non si può mai essere sicuri.
Alla Brigata Claudio si presenta una pattuglia: sono stati catturati due tedeschi, li hanno portati al Comando di Divisione e il commissario politico vuole che un reparto li custodisca per qualche giorno in attesa di ordini. “Bravo, perché non se li tiene lui? Sa benissimo che i prigionieri sono una rogna.”
I partigiani di Claudio protestano; tra loro, che sono democristiani, e il commissario, comunista, non corre buon sangue; si combatte insieme, ma spesso i contrasti sono vivaci.
Alla fine, dopo la solita litigata, i prigionieri restano lì.
Passano i giorni, sulle cime nevica, il freddo e l’umidità penetrano nelle ossa. Ormai le speranze si affievoliscono. Molti reparti cominciano a pensare di tentare di attraversare il fronte per rifugiarsi in Toscana. Ai tedeschi non sono mai stati augurati tanti accidenti come adesso.
Una sera uno dei prigionieri chiede di parlare col comandante. Io sono belga, dice; sono stato arruolato per forza. Quell’altro è un hitleriano fanatico; mi ha proposto di approfittare del primo momento di disattenzione dei vostri per prendere due mitra e fuggire insieme.
La reazione di alcuni è rabbiosa: facciamoli fuori subito. Altri obiettano: abbiamo criticato i comunisti per certi metodi troppo spicci; ci vuole un processo. Si elegge un tribunale che si riunisce nella stalla. Claudio presiede e a fatica tiene a bada i colpevolisti che chiedono di tagliar corto con le formalità. Si procede agli interrogatori: usando a fatica tedesco, francese, italiano e con l’aiuto dei gesti, ci si arrangia. Il belga conferma l’accusa, il tedesco prima nega poi si mette a piangere, ammette il suo progetto ma dice che fuggire è un diritto di ogni prigioniero.
A questa tesi si attacca Giovanni1 che funge da difensore; ma l’accusa ha buon gioco nel sostenere che il tedesco voleva portar via delle armi e che ha istigato l’altro a fare altrettanto.
La discussione si prolunga. Il motivo è semplice: le decisioni possibili sono solo due, o l’assoluzione o la morte; non esistono condanne intermedie. Gli animi si accendono. Dice Millo2, l’accusatore: avete già dimenticato Gino, Balilla e Paolo3 che sono morti due settimane fa combattendo contro questi maledetti crucchi? E i sei della nostra organizzazione di pianura impiccati col filo di ferro il 30 settembre a San Giacomo Roncole proprio davanti alla canonica, in odio a don Zeno4?
Millo ha tutte le ragioni dalla sua: non è questione solo di vendicare i nostri morti; questa è una guerra senza pietà; sapete bene che questi porci, se prendono uno di noi, non solo lo ammazzano, ma prima lo torturano. E allora, occhio per occhio, dente per dente. Il povero Giovanni si batte con accanimento in difesa del tedesco; ma i suoi argomenti sono deboli: non possono andare al di là del “non fare anche noi come fanno loro”.
Dopo mezzanotte, fuori tutti; i giudici debbono decidere. Non si vorrebbe arrivarci, ma alla fine prevale l’esigenza della sicurezza delle formazioni partigiane. Prigioni non ce n’è, si è costretti a frequenti spostamenti. E, presto o tardi, questo scappa e magari fornisce notizie utili per i rastrellamenti. La decisione è unanime: colpevole.
La mattina dopo c’è chi chiede di far parte del plotone di esecuzione e chi invece dice che lui di tedeschi ne ha ammazzati molti in combattimento e non gli ha fatto né caldo né freddo, ma di uccidere uno disarmato non se la sente.
Ad un certo punto nasce un problema: vogliamo ammazzarlo come un cane, senza chiamare il prete? Parte una pattuglia per la parrocchia più vicina. Intanto sulle aie della borgata i partigiani hanno messo abiti e scarpe ad asciugare e si godono il tiepido sole. Già, perché stamattina, dopo tanti giorni di freddo e di pioggia, è spuntata una giornata meravigliosa.
Arriva il prete, un vecchio amico dei partigiani. Parla a lungo con il tedesco, ma soprattutto cerca di convincere i partigiani a non ucciderlo. Sarà la forza delle sue argomentazioni o sarà che gli animi sono ben disposti: si può ammazzare un povero Cristo in una giornata come questa, con questo sole così dolce? L’esecuzione è rinviata. Com’era inevitabile, un mese dopo il tedesco riuscirà a scappare.
Quando ne riparlano oggi, i partigiani sono contenti che sia andata così.
1 Giovanni Manfredi; 2 Millo Olivieri; 3 Gino Giovanardi, Giorgio Campagna (Balilla), Paolo Sangiorgio caduti in combattimento contro i tedeschi il 6 ottobre ’44 al Ponte di Samone; 4 don Zeno Saltini