L’ospedale partigiano di Fontanaluccia

Ricordi di don Mario Prandi, parroco di Fontanaluccia (Re), scritti il 7 settembre 1963

 

Verso la fine di maggio l’alta valle del Dolo brulicava di patrioti essendosi qui radunate anche le formazioni comandate da Armando. Era inevitabile che gli scontri procurassero feriti più o meno gravi, ed era urgente costituire qualche posto di medicazione e di ricovero. Finché si trattava di casi isolati, si provvedeva in case e capanne di fortuna, ma ad un certo punto si sentì la necessità di raggruppare i feriti e i malati in un posto unico. Inoltre i lanci alleati procurarono un certo quantitativo di medicinali e di materiale di medicazione.

Sorse così, per l’interessamento del prof Pasquale Marconi, che si trovava nella zona, una prima rudimentale infermeria a Roncopianigi in Val d’Asta. Questa infermeria fu successivamente trasferita a Gazzano, ma quando fu liberata l’intera zona intorno a Montefiorino, si pensò di organizzarla meglio e come sede furono scelte le scuole di Fontanaluccia, dato che questa località si trovava in zona abbastanza centrale rispetto alla zona franca ed era collegata con la strada di Frassinoro e delle Radici. Si cominciò con l’attrezzarla di letti e biancheria prelevati negli alberghi ben forniti di Piandelagotti e San Pellegrino. Il materiale farmaceutico proveniva dai lanci e in parte anche da due farmacie della zona, non mancò anche un’adeguata provvista di derrate alimentari, fra cui 20 quintali di grano.

La direzione dell'”ospedale” fu assunta dal dott. Gerolamo Andreoli di Sassuolo, il quale già in precedenza si era rifugiato a Fontanaluccia; il dott. Andreoli era assistito dal dott. Comini e da un chimico; inoltre faceva capo a Fontanaluccia anche il prof. Marconi e saltuariamente il dott. Poncemi e il dott. Pisani.

Prestavano la loro attività come infermiere le suore dell’Ospizio di Fontanaluccia (dove in precedenza erano stati ricoverati diversi feriti) e due partigiane, la Margherita e la Vida. In luglio si aggiunse agli altri anche il dottor De Toffoli.

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Don Mario Prandi (foto da laliberta.info)

Nelle vicinanze dell’ospedale, e precisamente nelle case del Poggio di Montalbano, prese stanza una formazione partigiana che aveva l’incarico di aiutare a difendere all’occorrenza l’ospedale.

Si era così arrivati alla fine di luglio in una relativa calma, quando cominciarono ad arrivare numerosi feriti da varie parti perché era iniziato un rastrellamento. Nel primo pomeriggio di lunedì 31 luglio giunsero staffette con notizie sempre più allarmanti. Si decise perciò di cominciare a sfollare i feriti, che erano oltre 60. I meno gravi furono incolonnati verso Rovolo. Questo fatto seminò il panico tra i ricoverati, la popolazione timorosa di rappresaglie e gli stessi partigiani.

Purtroppo verso le 5 del pomeriggio non c’era più nessuno:  rimanevano ancora una quindicina di feriti più gravi da trasportare e nascondere. A questo compito si dedicarono il professor Marconi, il parroco, le suore, alcuni paesani e la Vida, l’ammirevole infermiera slava che non volle abbandonare i feriti. Alcuni tra i più gravi furono nascosti nei fossati e nei boschi, una quindicina fu portata in barella a un gruppo di case isolate, ritenute fuori mano, dette Ca’ Bernardi.

Quella notte non dormì nessuno: fu un viavai di formazioni in ripiegamento e per giunta arrivò da Frassinoro anche una colonna di prigionieri. Poiché un comando regolare non esisteva in quel momento, alcuni capi formazione che si trovavano feriti a Casa Bernardi decisero di liberare i prigionieri, meno tre, un sergente dell’aviazione tedesca, una donna ritenuta una spia e un ragazzo in uniforme repubblichina, che furono fucilati all’alba a pochi metri da Casa Bernardi. Il parroco fu avvertito soltanto a cose fatte e non gli rimase che scavare una profonda fossa insieme a due paesani per nascondere i corpi dei disgraziati.

Il giorno 1° agosto passò relativamente calmo: si sentiva soltanto il rombo lontano dei pezzi di artiglieria dei tedeschi. La sera scese abbastanza tranquilla sui poveri feriti, che avevano avuto un po’ di conforto dai sacramenti, che tutti vollero ricevere: in ciò il parroco fu coadiuvato con grande rispetto dall’infermiera Vida, benché essa fosse ebrea e convinta comunista.

Il 2 agosto sopraggiunsero le truppe tedesche, che distrussero quello che era stato l’ospedale partigiano. Il parroco con pochi altri tentò di salvare lenzuola e suppellettili, ma sopraggiunse un sergente tedesco che fece ributtare tutto dentro l’edificio prima che questo fosse incendiato.

Una pattuglia di tedeschi passò anche da Casa Bernardi, videro certamente i feriti, ma fecero finta di niente e passarono oltre: erano soldati e non appartenevano alle SS.

Passato il rastrellamento si giudicò prudente fare sloggiare i feriti da Casa Bernardi a una casa isolata fra i castagneti di Fontanaluccia chiamata “Le Pardelle”. Quella che era stata una stalla e fienile, diventò un reparto chirurgico che vide piccoli interventi e trasfusioni di sangue. Funzionò per quasi un mese poi le terribili difficoltà, fra cui la mancanza d’acqua, determinarono il trasporto dei feriti nella zona di Civago. Alcuni invece furono portati all’ Ospizio di Fontanaluccia che da allora divenne l’infermeria permanente della zona.

Il povero ospizio dal ’43 al 27 aprile del 45 ospitò, curò e assistette, ad alcuni dando anche sepoltura,  ben 52 combattenti delle più varie nazionalità,  oltre numerosi civili.

Dal registro, ancora oggi conservato presso l’Ospizio di Fontanaluccia, risulta che fra i combattenti,  oltre ai partigiani,  sono compresi 4 russi e un cecoslovacco passati alla Resistenza dopo aver disertato dall’esercito tedesco,  2 aviatori americani precipitati, 2 inglesi evasi dai campi di prigionia,  un tedesco e un fascista della “Monterosa” catturati.

Conclusioni di don Mario: “Colui che giudica con giustizia anche i movimenti dei cuori, avrà tenuto conto di quanto si è fatto in quei terribili giorni: e questo compensa tutti anche per il mancato riconoscimento da parte degli uomini”.

 

 

La zona libera raccontata da un protagonista

Trascrizione di un appunto manoscritto di Giovanni Manfredi (partigiano e presidente del Cln Montagna nell’inverno 1944-45). Il testo è stato scritto nella prima metà degli anni Sessanta.

 

Nella notte tra il 17 e il 18 giugno 1944 dopo un assedio durato 2 giorni il presidio fascista di Montefiorino fugge verso il bolognese, lasciando il campo libero alle forze partigiane che premevano da nord.

La maggior parte dei fascisti compreso il centurione comandante e il capo manipolo medico che fungeva da vice comandante sono fatti prigionieri dai partigiani di Monchio al comando di Leo.

Una amplissima zona della montagna reggiana e modenese resta così completamente libera da truppe nazifasciste.

Mappa Repubblica Montefiorino
Mappa disegnata da Luigi Borelli e tratta da “La Repubblica di Montefiorino” (Il Mulino, 1966)

A Montefiorino convergono i rappresentanti di tutte le forze presenti nella zona modenese-reggiana e da queste riunioni nasce il primo comando della Divisione Modena montagna, comandante è Armando (on. Mario Ricci) commissario è Davide (avv. Osvaldo Poppi) Capo di S.M. è il cap.Nardi Intendente generale è Libero Villa (Giovanni Vandelli).

Il comando cerca di suddividere i compiti e le zone di difesa e di resistenza nelle varie formazioni partigiane.

I giorni che immediatamente seguono la presa di Montefiorino sono i giorni in cui il fronte dei combattimenti tra gli alleati e i tedeschi è in movimento.

In molti la speranza che la guerra sia al termine suscita gli entusiasmi e incita all’azione. La conoscenza che una vasta zona della montagna è libera e che in essa si può impunemente vivere protetti dai fascisti e dai tedeschi, spinge giovani di ogni ceto a lasciare la casa o il rifugio e a recarvisi.

Il numero dei partigiani che affluiscono alla Repubblica di Montefiorino è quindi sempre più grande e gravi problemi per l’approvvigionamento e per l’armamento si determinano.

Le formazioni che sono alla periferia dello schieramento, Marcello e Balin, sono quelle che più risentono di questo afflusso di nuovi adepti.

Distaccamenti appositi di disarmati vengono approntati nelle zone più riparate e più difese come Gazzano e Civago.

Questa attrattiva, rappresentata dall’oasi di libertà che era in Montefiorino, accanto ai lati negativi cui si è fatto cenno, ha avuto tuttavia questo grande merito, quello cioè di avere saputo suscitare in tanti una ribellione, una opposizione alle forze nazifasciste che li tenevano legati con la paura e l’oppressione.

Il fatto che si poteva infrangere questa oppressione, anzi che si doveva infrangere questa catena è una cosa importante per l’educazione  delle coscienze che vent’anni di dittatura fascista avevano svirilizzato.

I giovani non erano stati educati alla auto decisione. Per vent’anni essi avevano avuto una autorità che aveva detto loro quali cose dovevano fare o pensare e quali no.

Ad un tratto essi possono prendere liberamente una decisione importante e la Repubblica di Montefiorino dà loro un aiuto a prendere la decisione giusta, a volgersi verso la parte giusta, verso la libertà e la democrazia.

Il territorio libero e controllato dai partigiani è a cavaliere tra le province di Modena e Reggio e comprende quattro comuni modenesi Frassinoro, Montefiorino-Palagano, Polinago e Prignano e tre reggiani Toano, Villa Minozzo e Ligonchio per una superficie di circa 1200 Kmq e una popolazione di 40.000 abitanti.

È il primo territorio libero nel cuore dell’Italia che verrà poi a trovarsi immediatamente a ridosso della Linea Gotica. È un territorio che è compreso tra due grandi arterie importanti per il traffico nord-sud e quindi per le comunicazioni tra il fronte e la Germania. Le arterie sono l’Abetone Brennero e la strada del Cerreto.

Specialmente la Abetone Brennero ha una grande importanza strategica e i continui attacchi a convogli militari tedeschi eseguiti dai partigiani, specialmente di notte, quando cioè le colonne potrebbero circolare al sicuro dagli attacchi aerei, disturbano grandemente i tedeschi. A tal fine al Comando partigiano di Montefiorino nel luglio ‘44 giunge una proposta di tregua da parte del comando tedesco. Il libero passaggio dei convogli sulle vie nazionali contro la tranquillità e l’immunità da rastrellamenti dei partigiani nel libero territorio della Repubblica di Montefiorino.

Detta proposta è ovviamente stata respinta dal Comando partigiano.

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Giovanni Manfredi (sulla destra) insieme a Ermanno Gorrieri (Claudio) e Luigi Paganelli (Lino)

 

Nella zona fin dal maggio staziona in permanenza una missione inglese al comando del maggiore Johnston che è in contatto quotidiano con il comando alleato. Nel periodo di Montefiorino si sono intensificati i lanci di armi e munizioni; più tardi in ottobre-novembre, soprattutto ad opera di missioni americane, si faranno lanci anche di indumenti e generi di conforto.

Tra le attività del luglio 44 sembrano degne di segnalazione:

1) L’apprestamento di un campo di atterraggio per apparecchi da ricognizione (cosiddette cicogne) nella zona di Frassinoro, campo che avrebbe dovuto servire anche all’atterraggio di una compagnia di paracadutisti, compagnia invano attesa nel combattimento di luglio-agosto.

2) La deviazione delle tubazioni del metanodotto che avevano sbocco a Barigazzo sulla statale 9 in mano ai tedeschi e il trasporto delle stesse tubazioni a Sassatella sulla strada delle Radici, completamente controllata dai partigiani.

L’attività militare fu intensa durante tutto il periodo, i combattimenti alla periferia dello schieramento furono diversi e molto numerose furono le azioni di disturbo sulla strada statale già citata.

Da segnalare la figura di don Elio Monari, Medaglia d’oro della Resistenza alla memoria, che fu catturato durante un combattimento per arginare una incursione tedesca su Piandelagotti.

Don Elio Monari era l’assistente diocesano dei giovani di Azione Cattolica.

Fin dall’8 settembre 1943 si era prodigato per soccorrere ebrei e prigionieri alleati e per contribuire alla organizzazione della Resistenza in Modena. Quando fu denunciato e attivamente ricercato non poté più rimanere a Modena e trovò rifugio in montagna tra i partigiani. Tra questi cominciò a frequentare formazioni di ogni ceto e indirizzo e durante il periodo di Montefiorino presso il comando della Divisione Modena Montagna esplicò attivamente il suo spirito di apostolato recandosi sempre là dove era il pericolo e il bisogno della sua opera.

Alla notizia che un combattimento si era acceso nella zona di Piandelagotti non esitò a salire sul camion di rinforzi che si recava nella zona da Montefiorino. Giunse a Piandelagotti che il combattimento era ancora acceso e la sparatoria nutrita.

Feriti di ambedue le parti giacevano sulla linea del fuoco e mentre gli si attardava ad assistere un ferito, e sembra un ferito tedesco, fu catturato assieme ad un altro partigiano. Da Piandelagotti fu portato prigioniero a Pievepelago, di là sembra a Firenze, poi si perdono le sue tracce e la sua salma non fu ritrovata*. Alla sua memoria, come detto è stata concessa la medaglia d’oro**.

Si arrivò così agli ultimi giorni di luglio quando i tedeschi forti di 3 divisioni corazzate con esuberanza di mezzi e di forze, da tutte le parti concentricamente strinsero i partigiani con la intenzione di annientarli. I combattimenti durarono 3 giorni: i partigiani resistettero sia pure arretrando le loro posizioni, finché il primo agosto si sganciarono e si dispersero.

Non furono però distrutti, molti caddero in combattimento, alcuni furono fatti prigionieri, i più però si spostarono nella zona ad est della statale 9 e si nascosero in zona.

L’orda tedesca passò, distrusse e bruciò Montefiorino, Palagano, Polinago, Toano, ma questa volta le popolazioni, ammaestrate dalle terribili esperienze di Monchio, Susano e Costrignano del 18 marzo 44, non si fecero trovare nei paesi e abbandonarono le loro abitazioni alla furia e allo scempio dei nazisti.

Di Montefiorino una sola casa rimase in piedi, tutte le altre furono distrutte e sinistra impressione faceva in quelle notti il riflesso di quei roghi sparsi nei monti.

I partigiani a poco a poco si ritrovarono, ricostruirono le loro file e il loro comando.

Altri furono i combattimenti ed i rastrellamenti, altri gli episodi di valore e di sangue. La zona fino alla liberazione non vide più un presidio stabile dei tedeschi e dei fascisti.

Montefiorino, anche se non fu più sede del comando e del Comitato di Liberazione, che si spostò in seguito in zone diverse secondo le esigenze della lotta, rimase sempre il simbolo della libertà e il centro della Resistenza modenese.

Accanto a queste vicende militari, importanza grande ebbe la Repubblica partigiana di Montefiorino anche perché in essa si costituirono tra giugno e luglio ’44 delle amministrazioni democratiche in contrapposizione di quelle che preesistevano rette dai podestà.

I metodi con i quali questi sindaci furono scelti furono vari, dall’acclamazione, all’elezione per alzata di mano in assemblee di capi famiglia.

Il fatto però denota lo spirito di voler instaurare un ordine nuovo in contrapposizione al fascismo.

 

Note del trascrittore

*La fine di don Elio Monari per anni fu avvolta nel mistero, fino a quando nel 1956 furono ritrovate sul greto dell’Arno le diciassette salme dei fucilati alle Cascine il 23 luglio ’44, fra esse quella di don Elio e quella del cap. Enzo Feliciani, catturati entrambi a Piandelagotti il 5 luglio.

**Motivazione della Medaglia d’oro: “Ministro di carità cristiana e patriota di sicura fede, subito dopo l’armistizio si prodigava, con solerte e generosa attività, nel soccorrere internati italiani e prigionieri alleati, molti ponendo in salvo ed alcuni sottraendo a morte sicura. Primo fra i cappellani di unità partigiane operanti sull’Appennino modenese, era a tutti di indimenticabile esempio sia nel santo esercizio della sua missione sia nei pericoli dei combattimenti che sempre affrontava con valore di soldato e pietà di sacerdote. Per soccorrere un morente presso le linee nemiche e (come aveva a dire ai compagni prima di uscire dai ripari), per dare la vita allo scopo di salvare un’anima, veniva catturato dai tedeschi, spogliato dalle vesti sacerdotali, brutalmente percosso ed inviato a lungo martirio nelle carceri di Firenze. Tra le atroci sevizie sopportate con la fermezza dei forti, sempre incoraggiava e confortava i compagni sofferenti, li benediceva prima di avviarsi all’estremo sacrificio. Firenze, piazzale Washington, luglio 1944”.